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mercoledì 8 ottobre 2014

DI piloti e sicurezza


L'altro ieri ricorrevano 41 anni dalla morte di François Cevert. Francese come Jules Bianchi, un trauma mortale alla testa dovuto a una ruota, il corpo imprigionato delle lamiere del guard rail a Watkins Glen.

Qualche anno fa ho letto una intervista a Jackie Stewart che all'epoca era suo compagno di team alla Tyrrel. Cevert non lo sapeva ma l'anno dopo sarebbe diventato prima guida perché Stewart aveva deciso di ritirarsi. Raccontò che un giorno con la moglie aveva contato quanti colleghi aveva visto morire e arrivato a 50 si era fermato disgustato. Da lì era nata l'idea di non correre più.
Erano anni in cui la sicurezza era una illusione, i piloti morivano nei modi più orrendi e persone come Jackie Stewart o Bernie Ecclestone si battevano per avere autodromi e auto migliori.

Oggi ci dimentichiamo che il "motorsport is dangerous". Tra i piloti che corrono in Formula 1 pochi si ricordano dell'incidente di Senna o Ratzenberger, così come io nel '94 non mi ricordavo di Villeneuve e Paletti e consideravo i driver come bambole di gomma che sbattevano senza farsi nulla. Il weekend di Imola, e quello dopo di Monaco con lo schianto all'uscita del tunnel di Karl Wendlinger, non hanno cambiato la mia passione per le corse; piuttosto, mi hanno fatto vedere ogni corsa in modo diverso. Quando domenica negli ultimi giri è entrata la safety car con i fari accesi, mi sono resa conto di quanto fosse buio a Suzuka; ho pensato che quando piove ed è notte non mi piace guidare.

Domenica guarderò la gara, come sempre tifando Ferrari. E penserò a De Cesaris che era intervistato in tivù da Zermiani quando ero bambina: gli incidenti sono incidenti a Suzuka come sul GRA.

Patrizia
NDGT

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